Vittorio Cozzoli
Fotografia di Daniele Ferroni
Quando volava l’airone notturno,
la gallina bianca di palude,
il picchio ramato, l’uccello grigio
e l’anatra dalla testa rosata,
questi, gli animali estinti e non parlo
degli altri, del cormorano occhialuto,
per restare tra gli uccelli del cielo,
la colomba migratrice volava
e volava il gallo delle brughiere.
Non dimentico qualche scricciolo.
Animali detti della memoria,
estinti, da poco o molto,
non importa ormai, ma come tacere,
come tacere mentre altri se ne vanno,
altri che non torneranno, l’astore,
la gru urlatrice, l’anatra arborea
e il piccione dal becco dentato
e alcuni uccelli molto canori,
quelli detti mangiatori di miele,
i canterini del bosco nei boschi,
dell’uomo non parlo, ma prego molto.
(1976)
Che il fumo dei semi di anice verde,
bruciati in un imbuto, guarisse la sordità,
che il biancospino calmasse del cuore
le inquiete improvvise palpitazioni
e vincesse l’insonnia ostinata,
questo si credeva al tempo dei tempi.
Ma oggi? Oggi di troppi bisogni.
Oggi per questo tanto più amato.
Altra cosa è seminare certezze,
come quando scrisse:”Non abbiate timore,
perché quanto ha di più bello il deserto
ha rigermogliato.
(1992)
Sempre con te, mai contro. Indifferente
ti dicono, matrigna, loro, i poveri di mente
e di cuore, gli ingrati, i sapienti tanto ignoranti.
Ma chi manda l’odore di polvere alle piogge
estive, chi fa cadere a terra le albicocche mature
e dopo il raccolto lascia agli uccelli le ultime
ciliegie? Chi nasconde e protegge il nido
del merlo nel folto del gelsomino? Così
ti conoscessero quelli che ancora
non ti conoscono e non ricordano
le domande bambine: e perché?
e perché? e perché?
(2022)
*
“E tu chi sei, da quale palude vieni?
Che vuoi dall’aglio e dall’elleborino,
dall’erba di spartina e dall’epilobio irsuto?
Domande da fare, curioso, alla calla
e al giaggiolo d’acqua? Da quale palude
vieni?”.(Porta voci il vento delle canne.
Cosa rispondo io, il poeta? Se dico che parlo
latino, loro,le dialettali, all’acoruscalamus,
e all’arundodonax lasciano il compito
di farmi stare zitto).
Vittorio Cozzoli nasce a Cremona, nella casa del nonno materno, al 30 di via 11 febbraio, il 30 ottobre 1942. Vanno subito notati, come particolarmente importanti per il corso della sua vita, i numeri, siail 30 ottobreche l’11 febbraio, che il calendario indica dedicato a Maria di Lourdes. Non solo i nomi a lui dati alla nascita, Vittorio (chiamato a ‘vincere’) Ermete (chiamato a ‘portare messaggi’), ma anche i numeri gli si sarebbero manifestati come un ‘omen’. Decisivi, per il corso della sua vita di poeta, tantoil 30 ottobre (nel loro 30 ottobre erano nati poeti e scrittori come Dostoevskij, Rimbaud e Pound, tutti segnati da una particolare stella, certo irrequieta e particolarmente vivace e forte), quanto l’11 febbraio, giorno segnato sul calendario anche da un san Dante. E l’11 è legato al suo incontrare in modo definitivo Dante. Occorre ricordare che ogni biografia può solo dire qualcosa del biografato, siaintorno alle sue vicende esteriori quanto, ancor più, a quelle interiori. Biografare in modo non riduttivo diviene il tenere presenti unitamente le une e le altre. In realtà non tutto è lecito dire, dato chenella vita di ogni uomo qualcosa rimane parte del mistero per il quale non solo un poeta, ma ogni uomo è in realtà un mistero a se stesso.E ciò a partire dal ritrovarsi ciascuno fatto in un certo modo (che non si è dato) e inclinato, qualcuno più di altri, a svolgere una missione, che può anche essere scrittoria, creativa (che non si è dato)e che lo spinge al suo compimento. Fare la storia di questo poeta e di questo commentatore anagogico di Dante, Vittorio Cozzoli, non è cosa facile, ma qualcosa rimane possibile, e doveroso non tacere. Vive i primi anni nella casa del nonno, ma dopo la sua morte, passato un breve periodo di transizione, si trasferisce coi genitori e il primo degli altri due fratelli, a Pizzighettone (Cremona), dove i genitori, maestri elementari, insegneranno per cinque anni, trasferendosi infine, di nuovo, a Cremona, così che la famiglia cambia più volte residenza. Gli anni scolastici di chi sarà poeta e commentatore anagogico sono tribolati e segnati da una irrequietezza che pagherà, in seconda media, anche con una bocciatura sottolineata dal mitico sette in condotta. Poi, piano piano, grazie ad un richiamo e ad un sempre maggiore coinvolgimento nel gioco del calcio, troverà modo di canalizzare quell’abbondante energia che trovava dentro di sé. Perciò i suoi genitori, in una situazione come questa sua, pensarono, da insegnanti quali erano, di avviarlo all’insegnamento dell’educazione fisica. La via più breve sarebbe stata quella di iscriverlo all’Istituto Magistrale. Così avvenne, e lì cominciarono a manifestarsi certi provvidenziali modi di guidarlo a ciò che il 30 ottobre e l’11 febbraio avrebbero significato per la sua vita e via. Gli incontri, in primis. Stabilizzante il primo, affettivo, con chi sarebbe divenuta sua moglie. In verità, mai ha patito carenze affettive, sentendosi sempre amato, anche nella sua gioiosa irrequietezza. In realtà in quegli anni ama più lo sport che gli studi. Gioca per alcuni anni nelle giovanili della ’Cremonese’, come promessa di una certa qualità calcistica (a volte in campo, però, pensava, mentre giocava, a cose già della poesia; poteva trattarsi di guardare una nuvola, così che non sempre poteva seguire gli inviti dei compagni di squadra; ma sapeva che non avrebbe potuto spiegareloro cosa interiormente gli accadesse). Come adire che iniziava a giocare su due campi, uno fuori e uno dentro di sé, senza che mai il fare nell’uno impedisse quanto necessario nell’altro. A scuola cominciava a portare, insieme ai testi, uno libro di poesia, che leggeva mentre i professori insegnavano le loro materie. Si stavano muovendo interiormente delle particolari curiosità;sentiva in sé degli attiramenti, senza ancora intenderne il significato e lo scopo. Terminati gli anni alle Magistrali, non si iscrive all’ISEF, ma al Magistero dell’Università Cattolica, avendo ben chiaro questo: che mentre il gioco sportivo era un’attività fisica e psicologica, gli studi letterari l’avrebbero spinto a seguire una speciale, e sempre più chiara, inclinazioneverso qualcosa sentito istintivamente come spirituale. E ciò valeva per lo stesso studiare, leggere, scrivere. Velocemente supera gli esami universitari, nonostante il minor tempo da dedicare agli studi, avendo cominciato ad insegnare come supplente annuale nella scuola media. Giunto il momento di scegliere la tesi, un giorno un amico, gli dice: “Se vuoi, a Trieste c’è una donna che ti può essere utile”. Alzate le antenne, quelle interiori di una sensibilità che andava cominciando a riconoscere come particolarmente sua, e senza sapere null’altro, si presenta a questa donna, che non sapeva essere Anita Pittoni, l’intellettuale e scrittrice triestina che oggi ha il suo bronzo ai giardini pubblici, vicino a quelli di altri grandi scrittorio triestini. Lo riceve, pur essendosi presentato senza alcun preavviso, e viene accolto in modo utile non solo per i suoi studi. Infatti, oltre il guidarlo nella stesura della sua tesi di laurea – ”Contributi allo studio della triestinità – Giani Stuparich” -, soprattutto lo inizia al mondo della scrittura, trasmettendogli quei valoriche così sono riassumibili: ‘libertà della penna’ e ‘moralità dell’arte’. La Pittoni riconosce in lui una chiara vocazione alla poesia. Per averne conferma, manda in lettura a Betocchi e Luzi i suoi primi versi, ricevendone un positivo riconoscimento. La laurea gli consente di mettere in pratica l’avviso ricevuto dalla Pittoni: “Svevo, Saba, , Giotti avevano un lavoro per il pane, e così rimanevano liberi scrivere in libertà, senza condizionamenti o autocensure, quello che avevano dentro”. Vinto il concorso per divenire docente di ruolo, e garantito il pane per la propria vita, ora poteva sentirsi libero di ‘fare il mio’. Anche i trentasette anni di insegnamento faranno parte della risposta ad una profonda vocazione alla mediazione, alla comunicazione, e, soprattutto, alla scrittura. Ciò significava andar liberando la poesia che sentiva presente in sé e che lo iniziava a un viaggio che non si è ancora concluso. Durante uno dei primi anni di insegnamento, ha occasione di partecipare, con altri famosi personaggi, letterari e non, ad un’inchiesta che verrà stampata col titolo “Letteratura e Teologia nel Novecento”. Tra gli altri furono coinvolti lo storico della letteratura Sansone e il card. Pellegrino. In seguito al proprio contributo, gli arrivò una lettera dal poeta Franco Loi, che aveva partecipato all’inchiesta, il quale, essendo stato colpito dal suo scritto, desiderava conoscerlo. Ne nacque una pluridecennale amicizia, che gli consentì di conoscere altri scrittori, in particolare i ‘dialettali’, tra cui R. Baldini e T.Baldassari. Questo rapporto coi ‘dialettali’ risultò più importante di quello con altri poeti in lingua italiana, dato che era in gioco un più diretto rapporto, concreto, con la realtà. E, proprio perché avesse di essa una conoscenza ancor più piena, accadde a Vittorio Cozzoli, inaspettato ed imprevedibile, un incontro, decisivo, con chi avrebbe aperto la porta a Dante. Ed è questo quantoriguarda l’11 febbraio, la cui importanza risulterà decisiva per la sua vita di commentatore anagogico e di poeta. Ma va detto che questo, senza ora entrare più a fondo nella realtà di quanto accadde, fa parte di una storia che appartiene più al mondo delle realtà spirituali che a quelle del mondo propriamente ed unicamente letterario. Non è ora il momento di affrontare un accadimento così decisivo e ‘ultimo’, riservandolo per un altro luogo o momento. Non è un caso che Dante stessodia l’avviso: “Meglio è tacere che poco dire”. Con ‘Dante’ la realtà si aperse come iniziazione alla conoscenza della realtà della realtà: una, senza soluzione di continuità, visibile ed invisibile, materiale e spirituale, temporale ed eterna, umana e divina. Come a dire che l’aldiqua e l’aldilà sono una cosa sola e di questo comincerà a farsi testimone la poesia di Cozzoli, soprattutto per mezzo della natura e dei suoi significati. Da qui un progressivo aprirsi della sua poesia alla realtà tutta, piena, vivente. Da qui quelsentire di essere chiamato a non tacerla, grazie alla felicità creativa ed alsuo scopo ultimo. Come a dire che la sua poesia inclina a manifestare unitamente ‘questo’ e ‘altro’, essendo la realtà una cosa sola. In genere, però, gli uomini – e la gran parte dei poeti – non ne colgono altro che l’aspetto percepibile coi sensi. Così rimane riduttivamente intesa la pienezza polisemica (dunque, anche anagogica), della sua poesia. Non comprendono, se non riduttivamente, quello che Dante insegna con le sue non unicamente retoriche similitudini, che dicono ‘questo’ (visibile) e l’’altro’ (Invisibile). Non questa era la poesia dei poeti che Cozzoliriconosceva come suoi contemporanei, affrontando per altra via e con altro scopo la contemporaneità . Da qui una sua inclinazione e un testimoniare un vedere ‘altro’, quello che, vedendolo interiormente, lo riconosceva nella natura. Ne derivò un’inclinazione nuova, al modo in cui Dante chiama ‘nova’ la realtà, così che di anno in anno, sempre meglio gli si manifestavail rivelarsi della realtà tutta(‘nova’di qua e ‘novissima’ di là), così da altra-mente testimoniare il senso della storia e della stessa poesia. Cioè, per quanto possibile, la sua natura, la sua forma, il suo fine. Che non ritiene essere solo letterario. E questo senza che mai venisse dimenticata l’umanità dei limiti di ogni scrittura;cioè il suo poco potere e il molto non potere. Così Vittorio Cozzoli andava scrivendo i suoi libri, alcuni dei quali ottenevano anche importanti premi letterari. Non attirato dalle poetiche di volta in volta dominanti, restava fedele alla propria ispirazione. Che, coerentemente con un viaggio di compimento di sé, lo guidava nel farsi ‘commentatore anagogico’ di Dante. Vera novità, questa, rispetto quanto scritto lungo i secoli dai più diversi commentatori; infatti,nel commentare anagogicamente, procedeva non al modo delle note a piè di pagina o delle tradizionali glosse, ma con un’esposizione al modo antico e medievale,quale quello ‘patristico’ alla S.Scrittura. Così veniva privilegiato ilDante che spiega Dante ‘secondo Dante’; e questo, anche fenomenologicamente, a partire dalla straordinarietà della propria condizione di mistico carismatico, che, autotestimoniata lungo tutta la sua opera, diviene ‘autoaccessus’ al significato della propria poesia. Nulla di esoterico in questo, ma unica via per intendere la stessa fenomenologia creativa di Dante. Così si può intendere l’intentio auctoris: assai chiara nel dichiarare come fine ultimo (‘novo’/’novissimo’) il guidare il lettore verso il significato spirituale della sua poesia. Fermarsi prima di giungere a tanto diviene, però, l’incessante lettura riduttiva del suo significato; ed è questo che, anche per vie raffinatissime e coltissime, si continua a fare. In Vittorio Cozzoli la lezione di Dante diviene guida per la sua poesia, che nasce liberamente e secondo uno scopo che, nel suo svolgimento, si va mostrando “in pro del mondo”. Perciò, come Dante non ha scritto una ‘tragedìa’, ma una ‘comedìa’ dal felice compimento, così, per quanto riguarda il suo proprio poetare, Cozzoli cerca di non privilegiare il moderno ‘male di vivere’, ma, anche e più, quanto di bello e bello, sapiente e vero, è nella realtà tutta. Dunque non solo presente nella natura, che andiamo distruggendo, ma soprattutto in noi. Se, infatti, dessimo credito a Dante e coerentemente ci comportassimo come tali, dovremmo riconoscerci non come macchine destinate a perire, ma come degli spiriti incarnati, perenni. Lungo gli anni, Cozzoli ha tenuto conferenze e lezioni in ambito universitario. Va ricordato il suo aver concluso, insieme a Mario Luzi, che aveva la parola conclusiva, il XX Convegno Mondiale di Filosofia a Bologna, nell’Università, essendo stato concesso ai ‘poeti’ di rivolgere la loro parola ai ‘filosofi’, così che le parole degli uni e degli altri ritrovassero un loro senso di origine e di scopo. Questo bio-grafare non solo un uomo poeta, ma ogni essere vivente, è compito della poesia di Vittorio Cozzoli. Felicità di ogni poesia/comedìa è scrivere, per quanto possibile/impossibile, il vivente. E la natura lo manifesta a tutti, siano essi già vedenti o non ancora vedenti. Ma questo non accade ai veri ciechi, a coloro che, come Dante dice, sono i “veri morti”.